• Americana

    Anno 2004, forse 2005.

    Nessuno ha idea di cosa sia un iPhone. Stiamo tutti giocando a GTA San Andreas sulla Playstation 2. Dobbiamo scegliere tra la compilation blu e quella rossa del Festivalbar. Io sono in una casa nell’appennino parmense e arriva un messaggio sul Nokia 6600 che è in carica in cucina. Una suoneria strana, diversa dalla solita per gli sms. Un messaggio di mio fratello, un MMS.

    Una parentesi doverosa. Dobbiamo accettare il fatto che c’è una buona probabilità che chi sta leggendo non abbia idea di cosa sia un MMS. Trattasi di Multimedia Messaging Service, era un servizio disponibile su alcuni telefoni di quegli anni che permetteva di inviare immagini. Certo, lo so, oggi con i vostri smartphone non sembra una gran cosa ma vi assicuro che al tempo era un mezzo miracolo. Un costosissimo mezzo miracolo.

    Torniamo a noi. Un messaggio con una foto da mio fratello. Mio fratello in quel momento si trova lontanissimo. Una distanza, per il me stesso dodicenne, inconcepibile. Arizona. Il messaggio contiene poche parole ( si pagavano anche quelle ) e una foto dei tre più famosi pilastri della Monument Valley. Diceva: “Monument Valley, Arizona”.

    Non so bene come rispondere. Ho un misto di invidia e meraviglia e curiosità dentro. Guardo le montagne fuori casa, il telefono ha abbastanza carica, lo stacco ed esco. Cerco una montagna famigliare, scatto una foto con il Nokia 6600, creo un nuovo MMS, aggiungo la foto e scrivo: “Monte Pareto, Italia”.

    Monte Pareto, foto NON scattata con Nokia 6600

    Settembre 2022.

    Tutti sanno benissimo cos’è un iPhone. Stiamo tutti giocando a GTA 5, chi sulla Playstation 4, chi sulla 5. Il Festivalbar non esiste più da anni ormai. Io non sono a casa, sono in un gigantesco aeroporto di Londra e mi arriva un messaggio Whatsapp sul Sony XPeria XA1, ben carico nella mia tasca. Probabilmente mia mamma che chiede se siamo già arrivati. Il mio unico pensiero al momento però è di correre per arrivare in tempo al gate. Il volo da Bergamo è partito leggermente in ritardo causa nebbia ma non posso permettermi di perdere il volo per Los Angeles. Ho aspettato troppo tempo. Il Covid si è messo in mezzo. I soldi si erano messi in mezzo. In mezzo adesso è rimasta solo l’assistente di volo che, a gate tecnicamente chiuso, concede la grazia e mi fa salire.

    Ho il culo sudato ma è sull’ultimo, freddo sedile di un aereo che sta per attraversare l’Oceano Atlantico, poi tutti gli stati uniti ed infine atterrare in un aeroporto ancor più grande di quello a Londra: Los Angeles.

    La città degli angeli è come in GTA, meno le persone che si sparano per strada ( forse ). Il jet lag uccide. Sono le tre di notte, l’hotel non è lontano dall’osservatorio, pochi minuti di macchina, me la gioco. Scendo nel parcheggio dell’hotel e Los Angeles è talmente grande che nemmeno gli americani riescono a riempirla tutta, le strade sono vuote, e c’è ( quasi ) silenzio. Poco dopo essere salito in auto ed aver fatto retromarcia abbasso il finestrino, c’è un ospite nel parcheggio: un bellissimo cane che, come ogni volta che vedo un cane, vorrei accarezzare. Solo che non è un cane, è un coyote. Attaccano le persone? Non lo so. Non lo voglio scoprire stanotte.

    Foto dall’osservatorio Griffith, un ragazzo giapponese che, evidentemente, soffriva di jet lag come me.

    Las Vegas è proprio la città del peccato, meno male che tutto ciò che rimane a Las Vegas rimane lì. Anche i dieci dollari che ho dovuto dare a Lucky Luciano, una specie di cantante, attore, non ho ben capito ma che oggi, di Lucky, ha soltanto il nome e chiede di fare foto con turisti per la strip.

    Purtroppo non c’è altro da dire a Las Vegas. Ho perso cento euro in una decina di minuti al casinò, ho mangiato al White Castle per la prima volta e Lucky Luciano starà spendendo i miei dieci dollari in qualche bar.

    Lucky Luciano, ovunque tu sia, buona fortuna. So che ne avrai bisogno nonostante il tuo nome.

    Gli americani sono estremamente gelosi dei loro parchi nazionali. Arrivato allo Zion ne capisco bene il motivo. Il piccolo paesino si chiama Springdale, l’hotel si chiama Zion Pioneer Lodge, di sera si mangiano badili di costine alla salsa barbecue, più America di così proprio non riesco. Amore a prima vista. Lo Zion non ha senso da quanto è bello e Springdale è l’emblema della classica vacanza Americana degli anni sessanta, vengo da Los Angeles e Las Vegas, ora sono su Marte.

    Che poi, da piccolo, pensavo sempre che con “NO VACANCY” intendessero che non volevano gente in vacanza. Vallo a pensare che intendevano “AL COMPLETO”.

    Sono anche stato fortunato: ho vinto la lotteria per Angels Landing, uno dei percorsi di trekking più belli in assoluto in questo parco. Mi sono però dimenticato un dettaglio: quanto sono grandi gli Stati Uniti. Perché dal Nevada allo Utah, cambia l’orario, si va un’ora avanti, è mezzogiorno per me quando arrivo allo Zion, ma in realtà è l’una. Per quando era la prenotazione che non si può spostare in nessun modo? Esatto: per le dodici.

    Ripeto: più America di così…

    Il Bryce Canyon, lì per lì, non sembra nemmeno così interessante. Suggestivo, curioso, ma non qualcosa per cui attraverserei l’oceano. Poi si scende, all’interno del canyon, ci sono gli alberi all’interno del canyon, gli alberi. Quando realizzi di essere a circa trenta metri da quella che fino a poco prima era la superficie e sei di fianco ad un albero che arriva fino in cima, allora pensi che ne vale la pena di aver attraversato un oceano per vederlo.

    Cioè dai ma in che senso ci sono gli alberi in fondo al canyon? E arrivano fino in cima? Ma dai smettetela.

    All’ingresso del parco leggo una targa che sembra importante: il Bryce Canyon è uno dei parchi “Dark Sky”. Cielo scuro. Immagino parlino di com’è alla notte. Se fosse chiaro di notte mi preoccuperei. Se fosse scuro di giorno anche. Di notte vado con l’auto in mezzo al parco, prima di muovermi chiedo ad uno dell’hotel se è sicuro. Mi risponde di sì, a parte occasionalmente qualche scoiattolo che può dare fastidio o far prendere paura. Carino, penso io. Magari c’è anche qualche falco pellegrino che gira ma di notte difficile vederlo. Peccato, penso io. A volte, ma è molto raro, si possono incontrare dei puma. Cosa?

    Niente scoiattoli, niente falchetti, di puma, per fortuna, solo quelle che avevo ai piedi.

    All’Antelope Canyon c’è caldo. Fuori. Dentro hanno l’aria condizionata come hanno da tutte le parti in America: pericolosamente bassa. L’Horseshoe Bend, chiamato così perché è una zona piena di cavalli ( non è vero. non ne ho visto nemmeno uno. No, forse uno sì ma era lontanissimo. – n.d.a ), è una di quelle cose che ti sembrano banali, che viste in foto è abbastanza, finché la foto non la fai tu.

    In bianco e nero mi sembra faccia meno caldo di quello che c’era.

    Tornando all’Antelope la guida è talmente preparata che indica a tutti le angolazioni migliori per fare le foto, riesce anche a trovare il tempo di fare un mini tutorial su apertura, tempo di scatto ed ISO per chi non ne sa nulla. Uno del posto.
    Gli chiedo se fa sempre così caldo.
    Risponde che settimana scorsa non faceva così caldo, anzi pioveva fortissimo.
    Ah, interessante almeno ci sarà stato un po’ più di fresco.
    Mi risponde: no, è stato un casino, quando piove qui si allaga tutto e non possiamo fare le uscite come questa.
    Chiedo se può piovere così tanto in un deserto.
    Mi risponde che ci è morto qualcuno con la pioggia di settimana scorsa.
    Ah.

    Scegliere una delle foto tra tutte quelle fatte all’Antelope è stato davvero difficile.

    La Monument Valley sarebbe da raccontare in questo punto ma la rimandiamo a dopo per scopi narrativi.

    Il Grand Canyon. Un uomo saggio una volta disse che per un uomo è consentito piangere solo in due momenti: ai funerali e davanti al Grand Canyon. A me, personalmente, viene da piangere solo quando mi rendo conto che per un disguido devo ancora pagare la seconda notte in hotel quando pensavo di aver già pagato tutto. Di notte anche qui si dovrebbe riuscire a fare qualche foto interessante, se non fosse per la più grande nuvola fantozziana mai registrata che copre completamente il cielo per almeno tre stati. Per il resto, andare in queste zone e non andare al Grand Canyon è un po’ come andare a Roma e non mangiare la carbonara.

    Oh, per essere grand è grand. Non fanno la carbonara però.

    Il finale è rapido ma non indolore. Dovrei fare un pezzo di strada che, secondo i miei calcoli, non dovrebbe essere troppo pesante o particolarmente lungo. Secondo i miei calcoli. Dio come sono scarso in matematica. Quasi quattrocento chilometri nel deserto con l’auto che forse non ha abbastanza carburante. Il telefono non prende, qua non prende nemmeno il Nokia 6600. Ci sono delle colonnine a bordo strada per le emergenze, mi guardano ed io le guardo una per una. La prima stazione di servizio, con il prezzo della benzina al triplo del normale sembra quasi un miraggio. Piccolo problema che mi costringe ad una sosta urgente al bagno ( non è vero, era stato un grosso, enorme problema. – n.d.a. ) ed un tizio che nel parcheggio della stazione di servizio mi chiede se voglio comprare alcolici, mi chiede solo venti dollari per una bottiglia di bourbon, da me riceve solo uno sguardo confuso. C’è anche una specie di dogana, non credevo ci fossero. Mi fermano e, come sempre quando sono al volante ed un’agente di una qualsiasi forza dell’ordine mi parla, sono preso dall’ansia come se fossi Pablo Escobar fermato al confine. Mi chiedono solo se trasporto delle mandorle. Prosegue la confusione iniziata con il tizio di prima e per fortuna proseguo anche io verso Los Angeles dove riprenderò il volo di ritorno.

    L’inferno là fuori.

    Una piccola sosta in uno di quei paesini lungo la Route66. Una di quelle cose che devo fare assolutamente da quando ho visto il primo film di Cars al cinema nel 2006. Colazione americana, uova, bacon, ketchup, caffè nero, musica country, dei camionisti fermi con lunghi baffi e vestiti che non cambiano da qualche giorno. Capisco perché l’America piace così tanto. In posti come questo ti senti come nella cucina dei tuoi genitori da bambino e guardi i cartoni alla televisione prima di andare a scuola. La tosse dei camionisti è come quella di vostro padre al mattino. Le lamentele delle cameriere sono le stesse di vostra madre quando vi diceva che state facendo tardi per l’autobus.

    “Life is an highway” è una canzone dei Rascal Flatts famosa per essere nella colonna sonora del film “Cars” della Disney. Brano originariamente composto da Tom Cokr… Cocrein… Cochrin, insomma cercatevelo su google, è nelle mie playlist da quando si girava ancora con i lettori mp3 e scaricavo le canzoni da eMul… iTunes, da iTunes!

    Rientro a Los Angeles. Hotel, sulla carta, bellissimo, di una nota catena internazionale, di cui non farò il nome perché era uno degli hotel più orribili che io abbia mai visto. Cena in un piccolo fast food lì vicino. Un ultimo assaggio di quella parte strana che adoro di Los Angeles: un tizio entra nel fast food, ha uno zaino enorme, ordina da mangiare, chiedono se vuole da bere, dice di essere già a posto. Si siede. Dallo zaino estrae una enorme borraccia da dieci litri di acqua, almeno spero. Il tempo di finire il menù normale che ha ordinato e la borraccia è a metà. Io invece sono alla fine. Vado a letto.

    Il mattino seguente restituisco l’auto. Vado in aeroporto così tanto tempo prima da non voler dire quanto per vergogna. Mi aspettano tante ore sopra l’oceano. Qualche altra ora sopra l’Europa. Infine un paio d’ore per tornare a casa.


    Guardo i tre pilastri della Monument Valley. Scatto una foto con il Sony XPeria XA1, la mando a mio fratello senza costi aggiuntivi con scritto: “Monument Valley, Arizona”.

    Mi risponde poco dopo con un messaggio, c’è anche una foto. Dice: “Monte Dosso, Italia”.

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